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   «La commiserazione, l'amore per i fratelli, per coloro che ci amano; l'amore per coloro che ci odiano, l'amore per i nemici, sì, quell'amore che Dio ha predicato sulla terra, che mi ha insegnato la principessina Mar'ja e che io non capivo; ecco perché mi dispiaceva di lasciare la vita, ecco quello che ancora mi restava, se fossi vissuto. Ma adesso è troppo tardi. Lo so!»   
   

   Capitolo XXXVIII   

   
   L'aspetto terribile del campo di battaglia, coperto di cadaveri e di feriti, insieme con la pesantezza alla testa e con la notizia che venti generali suoi conoscenti erano stati uccisi e feriti, e con la consapevolezza dell'impotenza della sua mano prima così forte, avevano prodotto un'impressione inaspettata su Napoleone, il quale prima amava invece di contemplare gli uccisi e i feriti per provare (com'egli credeva) la sua forza d'animo. Quel giorno l'orrendo aspetto del campo di battaglia vinse quella forza d'animo in cui egli credeva che stessero il suo merito e la sua grandezza. Napoleone si allontanò in fretta dal campo di battaglia e ritornò al tumulo di Ševardino. Giallo, gonfio, pesante, con gli occhi torbidi, il naso rosso e la voce rauca, stava seduto sulla sedia pieghevole ascoltando senza volerlo i rumori del cannoneggiamento, senza alzare gli occhi. Con morbosa angoscia aspettava la fine di quell'azione di cui si considerava la causa, ma che non poteva più fermare. Un sentimento umano e personale aveva preso per un breve istante il sopravvento su quell'artificiale simulacro di vita a cui aveva servito per tanto tempo. S'immedesimava con le sofferenze e la morte che aveva visto sul campo di battaglia. La pesantezza alla testa e al petto gli

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