fronte, a due tiri di fucile. Il colonnello che comandava la fanteria si avvicinò barcollando al suo cavallo, vi montò sopra e, fattosi di nuovo alto ed eretto nella persona, si recò dal comandante del reggimento di Pavlograd. I due comandanti si scambiarono inchini assequiosi, celando in cuore la reciproca collera.
«Ve lo ripeto, colonnello,» disse il generale, «in fin dei conti io non posso lasciare la metà dei miei uomini nel bosco. Vi prego, vi prego, di occupare la posizione e di prepararvi all'attacco,» ripeté.
«E io pregare voi di non occuparvi di faccende che voi non riguardare,» rispose il colonnello, scaldandosi. «Se voi essere della cavalleria...»
«Io non sono della cavalleria, colonnello, ma sono un generale russo, e se non lo sapete...»
«Lo so benissimo, eccellenza,» gridò improvvisamente il colonnello, spronando il cavallo e facendosi paonazzo. «Voi non volere venire in prima linea? Così vedere che questa posizione essere insostenibile. Io non voler distruggere mio reggimento per vostro piaccere.»
«State dimenticando con chi parlate, colonnello. Io non bado al mio piacere e non permetterò che si dica una cosa simile.»
Raccogliendo l'invito del colonnello a una sfida di ardimento, il generale, gonfiando il petto e aggrottando le sopracciglia, si mosse con lui in direzione della linea, come se tutto il loro dissenso dovesse risolversi là, in prima linea, sotto i proiettili. Giunsero in prima linea; varie pallottole volarono sopra di loro ed essi si arrestarono in silenzio. Agli avamposti non c'era nulla da vedere; era chiaro che la cavalleria non poteva operare in mezzo a macchie di cespugli e a burroni, e che i francesi stavano aggirando l'ala sinistra. Il generale e il colonnello si guardarono con espressione severa e significativa, come due