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un'occasione migliore.»   
   «Ma ho già detto che non lecchevò i piedi a nessuno.» lo interruppe Denisov, e continuò nella lettura del suo foglio.   
   Rostov non osò cercare di convincere Denisov, sebbene l'istinto gli dicesse che la via suggerita da Tušin e dagli altri ufficiali era la più sicura. Sarebbe stato anche felice di poter aiutare Denisov, ma conosceva l'inflessibile volontà dell'amico e il suo focoso senso della giustizia.   
   La lettura dei virulenti scritti di Denisov durò più di un'ora. Quando fu terminata, Rostov non disse nulla e, nella più triste disposizione d'animo, trascorse il resto della giornata in compagnia dei compagni di degenza di Denisov, che si erano di nuovo riuniti intorno a lui, raccontando ciò che sapeva e ascoltando i racconti degli altri. Denisov, durante tutta la serata, mantenne sempre un cupo silenzio.   
   La sera tardi Rostov si accinse ad andarsene e domandò a Denisov se aveva qualche commissione da affidargli.   
   «Sì, aspetta,» rispose Denisov; si volse a guardare gli ufficiali; poi, tolti i documenti di sotto il guanciale, si avvicinò alla finestra dove teneva il calamaio, sedette e prese a scrivere.   
   «È pvopvio vevo che contvo la fovza la vagion non vale,» disse, staccandosi dalla finestra e porgendo a Rostov una grande busta.   
   Era la supplica all'imperatore redatta dall'auditore; in essa Denisov, senza far alcun cenno delle colpe della sezione approvvigionamenti, chiedeva semplicemente la grazia.   
   «Tvasmettila: si vede che...» non finì la frase ed ebbe un sorriso doloroso e falso.   
   

   Capitolo XIX   


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