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Pierre, che era stato dai Rostov, promise di venire a pranzo l'indomani, domenica, e di portare il manifesto e il proclama che avrebbe ottenuto dal conte Rastòp?in.   
   Come di consueto, quella domenica i Rostov si recarono alla messa nella cappella privata dei Razumovskij. Era una calda giornata di luglio. Già alle dieci, quando scesero di carrozza davanti alla chiesa, nell'aria ardente, nei gridi di venditori ambulanti, nelle foglie impolverate degli alberi del boulevard, nelle note della musica e nei pantaloni bianchi del battaglione che si apprestava al cambio della guardia, nel frastuono della strada e nel lucente fulgore del sole infuocato si percepivano quello struggimento estivo, quella soddisfazione e quell'insoddisfazione del presente che si avvertono in modo vieppiù accentuato in città, nelle limpide e calde giornate estive. Nella chiesa dei Razumovskij c'erano tutta l'aristocrazia moscovita, tutte le conoscenze dei Rostov (quell'anno, come in attesa di qualcosa, molte famiglie abbienti, che di solito si trasferivano in campagna, erano invece rimaste in città). Camminando dietro un domestico in livrea che scansava la folla, Nataša udì la voce di un giovano che, con un bisbiglio troppo forte, diceva, riferendosi a lei:   
   «È la Rostova, quella che...»   
   «Com'è dimagrita! Però è sempre bella!»   
   Udì, o le parve di udire, che qualcuno pronunciasse i nomi di Kuragin è di Bolkonskij. Del resto, aveva sempre avuto quest'impressione: l'impressione che tutti, guardandola, pensassero solo a quanto le era accaduto. Soffrendo e sentendosi venir meno, come sempre quando le accadeva di trovarsi in mezzo alla folla, Nataša camminava nel suo abito di seta lilla a ricami neri così come sanno camminare le donne, in modo

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