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   Frattanto il principe Vasilij aveva aperto la porta che dava nella camera della principessina.   
   La stanza era in penombra, ardevano soltanto due piccole lampade davanti alle immagini e c'era un buon odore d'incenso e di fiori. Tutta la camera era arredata con mobili di poco ingombro: chiffonières, stipetti, tavolini. Dietro un paravento s'intravvedevano i bianchi veli di un alto letto soffice. Un cagnolino si mise ad abbaiare.   
   «Ah, siete voi, mon cousin?»   
   Ella si alzò e accomodò i capelli che sempre, anche ora, aveva eccezionalmente lisci, come se fossero appiccicati alla testa e ricoperti di lacca.   
   «Che cosa c'è? È accaduto qualcosa?» domandò. «Mi ero già tanto spaventata.»   
   «Nulla sempre lo stesso; sono venuto soltanto a parlare un po' con te, Catiche: di cose concrete,» disse il principe sedendosi stancamente sulla poltrona dalla quale lei s'era alzata. «Come l'hai scaldata, qui dentro, però,» disse, «siediti qui, causons.»   
   «Credevo che fosse successo qualcosa...» disse la principessina, e sedette di fronte al principe con la sua immutabile espressione severa, come pietrificata, preparandosi ad ascoltare. «Volevo dormire un po', mon cousin, ma non ci riesco.»   
   «Ebbene, mia cara?» disse il principe Vasilij, prendendo la mano della principessina e piegandola verso il basso, secondo la sua abitudine.   
   Si vedeva che quell'«Ebbene» si riferiva a molte cose che tutt'e due capivano senza menzionare.   
   Con quella vita troppo lunga rispetto alle gambe, magra e rigida

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