non mi ha chiamato? Perché non mi ha permesso di essere accanto a lui, al posto di Tichon?» aveva pensato allora - e pensava anche ora - la principessina Mar'ja. «Ormai non dirà più a nessuno tutto ciò che aveva nell'anima. Ormai né per lui, né per me tornerà il momento in cui avrebbe potuto dire ciò che voleva dire; ed io, non Tichon, l'avrei ascoltato e l'avrei compreso. Perché allora non sono entrata nella stanza?» continuava a pensare. «Chissà, forse mi avrebbe detto ciò che ha detto il giorno della morte. Anche allora, mentre conversava con Tichon, aveva chiesto due volte di me. Voleva vedermi, e io ero lì, dietro la porta. Per lui era malinconico e opprimente parlare con Tichon che non lo capiva. Ricordo che a un certo momento si era messo a dirgli qualcosa di Liza, come se lei fosse stata viva. Si era scordato che Liza era morta, e Tichon glielo aveva rammentato. Allora lui aveva gridato: "Sei un idiota!" Si sentiva oppresso. Da dietro la porta avevo udito che gemendo si era sdraiato sul letto e aveva gridato forte: "Dio mio!" Perché non sono entrata, allora? Che cosa mi avrebbe fatto? Che cosa avevo da perdere? Lui, forse ne sarebbe stato riconfortato, mi avrebbe detto quella parola...» E la principessina Mar'ja pronunciò ad alta voce la parola tanto affettuosa che il padre le aveva detto il giorno della sua morte. «A-ni-ma mia!» ripeté la principessina Mar'ja e scoppiò in lacrime che le alleggerivano l'anima. Ora vedeva davanti a sé il suo viso. Non il viso che conosceva da quando aveva coscienza di sé e che aveva sempre veduto da una certa distanza; ma quell'altro viso, timido e debole, che per la prima volta aveva scrutato da vicino con tutte le sue rughe e in ogni minimo dettaglio quando, l'ultimo giorno, s'era chinata sulla sua bocca per sentire ciò che lui diceva.
«Anima mia,» ripeté ancora.