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«Possibile che sia stato io a lasciar arrivare Napoleone fino a Mosca? E quando l'avrei fatto? Quando si sarebbe decisa la cosa? Forse ieri, quando ho mandato a Platov l'ordine di ritirarsi, oppure due giorni fa, quando mi sono assopito e ho ordinato a Bennigsen di dare lui disposizioni? O ancora prima?... Ma quando, quando s'è decisa questa terribile cosa? Mosca deve essere abbandonata. Le truppe devono ritirarsi e devo essere io a dare quest'ordine.» Dare quest'ordine terribile gli sembrava come rinunciare al comando dell'esercito. E non solo il potere gli piaceva, ci era abituato (gli onori resi al principe Prozorovskij, con cui si era trovato in Turchia, lo esasperavano), ma era convinto di essere predestinato a salvare la Russia e che proprio per questo, contro la volontà dell'imperatore e per volontà del popolo, fosse stato eletto comandante supremo. Era convinto che lui solo, in quelle difficili condizioni, fosse in grado di restare alla testa dell'esercito, che lui solo, in tutto il mondo, fosse in grado di sapere, senza per questo sgomentarsi, che il suo avversario era l'invincibile Napoleone; e perciò inorridiva al pensiero dell'ordine che doveva dare. Ma bisognava decidere qualcosa, bisognava far cessare i discorsi che si andavano facendo intorno a lui, e che cominciavano ad assumere un carattere di eccessiva spregiudicatezza.   
   Chiamò a sé i generali più anziani.   
   «Ma téte, fut-elle bonne ou mauvaise, n'a qu'à s'aider d'elle même,» disse alzandosi dalla panca, e ripartì alla volta di Fili, dove sostavano le sue carrozze.   
   

   Capitolo IV   

   
   Il consiglio si riunì alle due nell'ampia stanza principale dell'izba

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