dei padroni. Trenta carri non potevano salvare tutti i feriti e, nella sventura comune, non si poteva non pensare a se stessi e alla propria famiglia.
Così pensava il maggiordomo per il suo padrone.
Il mattino del I° settembre, il conte Ilija Andreiè, svegliatosi per primo, uscì pian piano dalla camera da letto per non svegliare la contessa che si era assopita soltanto verso il mattino e si affacciò alla scala d'ingresso nella sua vestaglia di seta lilla. I carri, coi carichi ben assicurati dalle corde, stavano nel cortile. Davanti alla scalinata d'ingresso stavano le carrozze. Il maggiordomo era presso la scalinata e discorreva con un vecchio attendente e con un giovane ufficiale pallido, che aveva un braccio legato al collo. Vedendo il conte, il maggiordomo fece all'ufficiale e all'attendente un gesto severo e significativo perché si allontanassero.
«Allora, è tutto pronto, Vasiliè?» disse il conte grattandosi la testa calva, guardando bonariamente l'ufficiale e l'attendente e facendo un cenno con il capo. (Al conte piacevano le facce nuove.)
«Si può attaccare anche subito, Eccellenza.»
«Benissimo, appena si sveglierà anche la contessa, ci metteremo in viaggio, con l'aiuto di Dio! Voi cosa desiderate, signori?» si rivolse all'ufficiale. «Siete sistemati in casa mia?»
L'ufficiale si fece avanti. Sul suo volto pallido avvampò improvviso un vivido rossore.
«Conte, fatemi la grazia, permettetemi... per amor di Dio... di sistemarmi in qualche modo sui vostri carri. Qui con me non ho nulla... Magari in cima a un carico... è lo stesso...»
L'ufficiale non aveva ancora finito di parlare che l'attendente si