«Sai, ma chère, ti volevo dire... ma chère contessuccia... è venuto un ufficiale a pregarmi di dare qualche carro per trasportare i feriti. Questa è tutta roba che si può ricomprare, mentre loro come possono restare, pensaci!... Il fatto è che sono qui da noi in cortile, siamo stati noi a chiamarli, ci sono pure degli ufficiali... Sai, io penso, davvero, ma chère, ecco, ma chère... lascia che li carichino... tanto, che fretta c'è?...»
Il conte diceva tutto questo timidamente, come sempre quando c'erano in ballo questioni d'interesse. La contessa, dal canto suo, era ormai abituata a questo tono, che precedeva sempre qualche iniziativa destinata a danneggiare i figli, come, per esempio, la costruzione di una galleria, di una serra, l'allestimento di un teatro o di un'orchestra privata; ed era anche abituata, e lo considerava suo dovere, ad opporsi a ciò che veniva esposto con quel tono timido.
Assunse la sua solita aria sottomessa e querula e disse al marito:
«Senti, conte, hai fatto in modo che per la casa ormai non ci danno più niente e adesso vuoi distruggere così tutto il patrimonio nostro, e dei nostri figli. Ma se dici tu stesso che in casa c'è roba per centomila rubli! Io, amico mio, non sono d'accordo, assolutamente! Fa come vuoi!... Ai feriti pensa il governo. Loro lo sanno. Guarda qui di fronte, dai Lopuchin, già l'altro ieri hanno portato via tutto, fino all'ultima briciola. Ecco come fa la gente. Soltanto noi siamo così stupidi. Se non di me, abbi almeno compassione dei tuoi figli.»
Il conte agitò le braccia e usci dalla stanza senza dir niente.
«Papà! Che cosa c'è?» disse Nataša che era entrata subito dopo di lui nella stanza della madre.
«Niente! Di che cosa t'impicci!» disse arrabbiato il conte.