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sentimento nei confronti di Karataev.   
   Agli occhi di tutti gli altri prigionieri, Platon Karataev era il più normale dei soldati; lo chiamavano Falchetto o Platosa, lo prendevano bonariamente in giro, lo mandavano a fare commissioni. Ma per Pierre egli rimase sempre quel che gli era apparso la prima notte: ineffabile, rotonda, eterna personificazione della semplicità e della verità.   
   Platon Karataev non sapeva nulla a memoria, fuorché le sue preghiere. Quando raccontava qualcosa, sembrava che cominciasse a parlare senza sapere come avrebbe finito.   
   Le volte che Pierre, colpito dal senso del suo discorso, lo pregava di ripetere ciò che aveva detto, Platon non riusciva a ricordare quel che aveva appena finito di dire, così come non era assolutamente capace di ripetere a Pierre le parole della sua canzone preferita. C'era, in essa, «mia cara piccola betulla», e poi «mi sento languire», ma, così a parole, era impossibile cavarne qualcosa. Non capiva, non poteva nemmeno concepire il significato di parole prese isolatamente dal discorso. In ogni sua parola, così come in ogni sua azione, si esprimeva quell'attività a lui stesso ignota che era la sua esistenza. Ma anche la sua vita, per lui, non aveva senso di per se stessa, isolatamente, ma solo come particella di un tutto di cui egli aveva costantemente coscienza. Le sue parole e le sue azioni fluivano dalla sua persona con la stessa regolarità, necessità e immediatezza con cui un fiore esala il suo profumo. Era impossibile, per lui, capire il valore o il significato di un'azione o di una parola considerate come qualcosa a sé stante.   
   

   Capitolo XIV   

   

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