avrebbe dovuto esser già molto avanti, in posizione d'imboscata. «Uno sbaglio, forse...» pensò il vecchio comandante. Ma, inoltratosi ancora, Kutuzov vide dei reggimenti di fanteria i cui soldati, affastellati i fucili, attendevano al rancio o a far legna, in mutande. Fece chiamare l'ufficiale. L'ufficiale riferì che non era stato impartito nessun ordine di attacco.
«Ma come, non...» fu per cominciare Kutuzov, ma immediatamente tacque, e ordinò che facessero venire l'ufficiale di grado più alto.
Sceso di carrozza, camminò avanti e indietro a testa bassa, il respiro pesante, aspettando in silenzio. Quando si presentò l'ufficiale - era Eichen, dello Stato Maggiore - Kutuzov si fece paonazzo, non perché quell'ufficiale fosse responsabile dell'errore, ma perché era un oggetto degno della sua collera. E così, sussultando e in preda a una di quelle crisi di furore di cui era capace, al punto da giungere, a volte, a rotolarsi per terra dall'ira, egli si avventò contro Eichen minacciandolo con i gesti, urlando e insultandolo in modo plateale. Un altro ufficiale, non meno innocente, che gli capitò fra le mani, il capitano Brozin, subì la stessa sorte.
«Chi è quest'altra canaglia? Via, alla fucilazione! Delinquenti!» gridava con voce rauca, agitando le braccia e barcollando.
Quello che provava era una sofferenza fisica. Lui, il Comandante supremo, l'Altezza Serenissima, abituato a sentirsi dire da tutti che nessuno, in Russia, aveva mai avuto tanto potere, proprio lui era stato cacciato in una posizione simile, condannato a diventare lo zimbello di tutto l'esercito. «È stato tutto inutile; che mi sia arrovellato a pregare tanto per la giornata d'oggi, che non abbia chiuso occhio, tutta la notte, per pensare a ogni cosa!» ripeteva a se stesso. «Quand'ero un ragazzo,