Cercò di farsi venire in mente se per caso non avesse fatto qualche altra sciocchezza. E ripensando alla giornata trascorsa, si ricordò del tamburino francese. «Noi stiamo benissimo, ma lui? Dove l'avranno messo? Gli avranno dato da mangiare? Non gli avranno fatto del male?» pensò. Ma essendosi accorto di aver parlato troppo a proposito delle pietre focaie, adesso si tratteneva. «Chissà se posso domandarlo,» pensava, «diranno: è un ragazzo e ha compassione di un altro ragazzo. Ma domani gli farò vedere io che razza di ragazzo sono! Sarà sbagliato domandare?» pensava. «Comunque, fa lo stesso!» E rosso in volto, guardando gli ufficiali col timore di scorgere dell'ironia sui loro volti, disse:
«Non si può chiamare quel ragazzo che è stato fatto prigioniero? Dargli... magari... qualcosa da mangiare...»
«Sì, è un povevo vagazzino,» disse Denisov, che evidentemente non trovava nulla di vergognoso nell'idea. «Fatelo venive qui. Si chiama Vincent Bosse. Mandatelo a chiamave.»
«Lo chiamo io,» disse Petja.
«Chiamalo, chiamalo. È un povevo vagazzino,» ripeté Denisov.
Petja era già alla porta quando Denisov disse questo. Si intrufolò allora tra gli ufficiali e gli si accostò.
«Permettete che vi baci, caro,» disse. «Ah, com'è bello! Come si sta bene!»
E baciato Denisov, corse fuori.
«Bosse! Vincent!» gridò, fermandosi presso la porta.
«Chi cercate, signore?» disse una voce nel buio.
Petja rispose che cercava il ragazzo francese che avevano catturato quel giorno stesso.
«Ah, Vesennij?» disse il cosacco.