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   Il nome Vincent era già stato trasformato dai cosacchi in Vesennij, e dai contadini e dai soldati in Visenja. In entrambe le varianti c'era una menzione della primavera che si accordava molto bene con l'immagine di un ragazzo così giovane.   
   «Era là che si scaldava vicino al fuoco. Ehi, Visenja, Visenja! Visennij!» echeggiarono nel buio voci e risate, rincorrendosi.   
   «È un ragazzo svelto, quello,» disse l'ussaro che era accanto a Petja. «Poco fa gli abbiamo dato da mangiare. Accidenti che fame aveva!»   
   Nel buio si sentirono dei passi e il tamburino si avvicinò alla porta sguazzando con i piedi nudi nel fango.   
   «Ah, c'est vous!» disse Petja. «Voulez-vous manger? N'ayez pas peur, on ne vous fera pas de mal,» soggiunse, sfiorandogli in modo timido e affettuoso il braccio. «Entrez, entrez.»   
   «Merci, monsieur,» rispose il tamburino con voce tremante, quasi infantile, e si mise a strusciare sulla soglia i piedi sudici.   
   Petja avrebbe voluto dire molte cose al tamburino, ma non osava. Indugiava accanto a lui nell'andito, appoggiandosi ora all'una ora all'altra gamba. Poi nell'oscurità gli afferrò una mano e gliela strinse.   
   «Entrez, entrez,» ripeté soltanto con un affettuoso bisbiglio.   
   «Ah, che cosa potrei fare per lui?» disse fra sé e, aperta la porta, fece passare avanti il ragazzo.   
   Quando il tamburino fu entrato nell'isba, Petja gli sedette discosto, ritenendo umiliante farsi vedere interessato a lui. Si limitava a tastarsi in tasca il denaro chiedendosi se non fosse disdicevole darlo al tamburino.   
   

   Capitolo VIII   


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