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successo l'indomani. Poi, visto che Denisov si era addormentato, si alzò e uscì all'aperto.   
   Fuori era ancora buio completo. Non pioveva più, ma gli alberi grondavano ancora. Vicino al posto di guardia si intravvedevano le sagome scure delle tende dei cosacchi e dei cavalli legati a gruppi. Dietro la piccola isba nereggiavano i due furgoni con accanto i cavalli e nel burrone rosseggiava un fuoco in procinto di spegnersi. Non tutti i cosacchi e gli ussari dormivano: qua e là, insieme al ticchettio delle gocce che cadevano e al rumore del masticare dei cavalli si sentivano voci sommesse e bisbiglianti.   
   Uscito dall'andito, Petja si guardò intorno nel buio e si avvicinò ai furgoni. Sotto ai furgoni qualcuno russava e intorno alcuni cavalli sellati masticavano l'avena. Nell'oscurità Petja riconobbe il proprio cavallo, che lui chiamava Karabach, sebbene fosse un cavallo della Piccola Russia e gli si accostò.   
   «Allora, Karabach, domani ci faremo onore,» disse, annusandogli le froge e baciandolo.   
   «Che c'è, signore, non dormite?» disse un cosacco rannicchiato sotto il furgone.   
   «No, io... Ti chiami Lichaèëv, vero? Sono appena tornato. Siamo andati dai francesi.»   
   E Petja raccontò dettagliatamente al cosacco non solo la sua ricognizione, ma anche perché l'avesse fatta e perché pensasse che fosse meglio rischiare la vita che fare le cose alla meno peggio.   
   «Ora dovreste farvi una dormita,» disse il cosacco.   
   «No, sono abituato,» rispose Petja. «Ma a voi le pietre focaie delle pistole non si sono consumate? Perché io ne ho molte con me. Non ti

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