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suoni, presero ad accordarsi, a perdersi, a fondersi, e di nuovo tutto si compose in quel medesimo inno dolce e trionfale. «Ah, che cosa affascinante! Tutto come voglio io,» diceva Petja tra sé. E si provò a dirigere quell'immenso coro di strumenti.   
   «Sù, piano, piano, ora smorzate.» E i suoni lo obbedivano. «Sì, adesso, con forza, con più brio. Ancora, ancora più gioiosamente.» E da una profondità sconosciuta si levavano in un crescendo note solenni. «Ora voci, tocca a voi!» ordinò Petja. E in lontananza si udirono dapprima voci maschili, poi voci femminili. Le voci aumentavano, salivano in un crescendo ritmico e solenne. Petja provava paura e gioia insieme ascoltandone l'eccezionale bellezza.   
   Il canto si fondeva con la solenne marcia trionfale e le gocce cadevano e - zig, zig, zig - strideva la sciabola, e i cavalli nitrivano, senza disturbare il coro, ma piuttosto entrando a farne parte.   
   Petja non sapeva da quanto la cosa durasse: ne godeva, si meravigliava continuamente della propria felicità e si rammaricava di non aver nessuno a cui comunicarla. Lo svegliò la voce cordiale di Lichaèëv.   
   Petja si svegliò.   
   I cavalli, prima invisibili, ora si vedevano fino alle code e attraverso i rami spogli traspariva una luce acquosa. Petja si riscosse, balzò in piedi, cavò di tasca un rublo d'argento e lo diede a Lichaèëv, con un fendente provò la sciabola e la infilò nel fodero. I cosacchi intanto slegavano i cavalli e stringevano le cinghie delle selle.   
   «Ecco il comandante,» disse Lichaèëv.   
   Dal posto di guardia uscì Denisov e chiamato Petja ordinò l'adunata.   
   

   Capitolo XI   


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