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   Un esercito fuggiva, l'altro inseguiva. Dopo Smolensk, davanti ai francesi si aprivano molte strade e nei quattro giorni di sosta avrebbero probabilmente potuto appurare dov'era il nemico, ideare qualche azione vantaggiosa e intraprendere qualcosa di nuovo. Ma dopo quei quattro giorni di sosta, le loro truppe ripresero la fuga, non verso destra, non verso sinistra ma, senza alcuna manovra o valutazione, per la vecchia strada, che era la peggiore, verso Krasnoe e Orša, sulle orme già battute.   
   Aspettandosi il nemico alle spalle e non di fronte, i francesi fuggivano coprendo un lunghissimo tratto, divisi i primi dagli ultimi da ventiquattro ore di distanza. In testa a tutti fuggiva l'imperatore, poi il re, poi i duchi. L'esercito russo, credendo che Napoleone avrebbe preso a destra verso il Dnepr - sarebbe stata l'unica cosa ragionevole da fare - si precipitò anch'esso verso destra sbucando sulla grande strada che portava a Krasnoe. E qui, come nel gioco della moscacieca, i francesi si imbatterono nella nostra avanguardia. All'inaspettato apparire del nemico, i francesi si smarrirono, bloccati, sia pur momentaneamente, dallo spavento. Ma poi ripresero la fuga, abbandonando i compagni rimasti indietro. E là, praticamente attraverso le linee russe, continuarono a passare per tre giorni, una dopo l'altra, singole unità francesi, dapprima quelle del viceré, poi quelle di Davout, poi di Ney. Tutti si abbandonavano a vicenda, abbandonavano tutti i carichi, l'artiglieria, metà degli uomini, e fuggivano soltanto di notte, descrivendo dei semicerchi sulla destra al largo dei russi.   
   Ney, che procedeva per ultimo (perché nonostante la loro disperata situazione o forse proprio in conseguenza di questa, i francesi volevano percuotere quel pavimento contro cui si erano fatti male, ed egli si era fermato a far saltare le mura di Smolensk che non davano fastidio a

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