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non m'importa se resti in agonia, sempre in agonia sotto i miei occhi, ne sarei stata felice in confronto a come mi sento ora. Ora non c'è nulla, non c'è nessuno. Lo sapeva lui questo? No. Non lo sapeva e non lo saprà mai. E ormai non si potrà mai, mai più rimediare.» E di nuovo lui le diceva quelle parole, ma ora, nella sua immaginazione, Nataša gli rispondeva in modo diverso. Lo interrompeva e diceva: «Tremendo per voi, ma non per me. Sappiate che per me senza di voi non c'è niente nella vita e soffrire con voi per me è la più grande felicità.» E lui le prendeva la mano e gliela stringeva come gliel'aveva stretta quella terribile sera, quattro giorni prima di morire. E, nella sua immaginazione, lei gli diceva altre parole, trepide, amorose, che avrebbe potuto dire anche allora. «Ti amo... amo... te... ti amo...» diceva, torcendosi convulsamente le mani e stringendo i denti con violenza disperata.   
   E un pacato dolore l'inondava e già le salivano le lacrime agli occhi, quando d'improvviso si chiedeva: «A chi sto dicendo questo? Dov'è lui e chi è lui ora?» E di nuovo tutto veniva offuscato da un'arida e acuta perplessità e di nuovo, corrugando le sopracciglia, essa scrutava laggiù, là dov'era lui. Ed ecco, le sembrava di essere sul punto di penetrare il mistero... Ma nel momento in cui sembrava che l'incomprensibile cominciasse a svelarsi, il sonoro scatto della maniglia ferì dolorosamente il suo udito. Rapida e senza riguardo, con una faccia spaventata e senza badarle, entrò la cameriera Dunjaša.   
   «Andate dal babbo, presto,» disse con tono insolito e agitato. «Una disgrazia... Pëtr Il'iè... una lettera...,» esclamò tra i singhiozzi.   
   

   Capitolo II   

   

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