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appassionatamente dedito, con certe sue leggi che lei non riusciva a capire.   
   Quando certe volte, sforzandosi di capirlo, gli parlava dei suoi meriti, che consistevano nel fare del bene ai suoi sottoposti, Nikolaj si arrabbiava e rispondeva: «Ma niente affatto! Cose del genere non mi passano mai per la mente, e per il loro bene non faccio un bel nulla. Tutto questo è poesia, fantasie da donnette, il bene del prossimo e compagnia bella! A me interessa che i nostri figli non debbano andare in giro a mendicare; devo sistemare bene il nostro patrimonio finché sono vivo, ecco tutto. E per questo ci vuole ordine, ci vuole severità... ecco tutto!» diceva, serrando il suo pugno poderoso. «E anche giustizia, beninteso,» aggiungeva, «perché se un contadino è nudo, affamato e ha soltanto un cavalluccio, non lavora né per sé né per me.»   
   E, probabilmente, proprio perché Nikolaj non si permetteva di pensare che faceva qualcosa per gli altri in modo disinteressato, tutto quello che faceva era fruttifero: il suo patrimonio aumentava rapidamente; i contadini del vicinato venivano a chiedergli di comprarli, e per molto tempo dopo la sua morte si conservò tra il popolo un devoto ricordo della sua amministrazione. «Quello era un padrone... Prima la roba dei contadini, e poi la sua. E di complimenti non ne faceva con chi non rigava dritto! Insomma: un vero padrone!»   
   

   Capitolo VIII   

   
   L'unica cosa che qualche volta angustiava Nikolaj nella sua coscienza di amministratore della sua azienda era l'irascibilità unita alla vecchia abitudine da ussaro di menar le mani. Nei primi tempi non vedeva in questo

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