entrò nella casetta che occupava con Denisov.
«Che fa il padrone?» domandò a Lavruška, il domestico briccone di Denisov, conosciuto da tutto il reggimento.
«Da ieri sera non s'è visto. Di sicuro ha perso giocando a carte,» rispose Lavruška. «Ormai lo so: quando vince, ritorna presto per avere il tempo di vantarsi; ma se non si fa vedere fino a mattina, vuol dire che gli è andata male, e allora quando compare è furibondo. Volete del caffè?»
«Sì, dammene un poco.»
Dieci minuti dopo Lavruška portò il caffè.
«Vengono!» disse, «Adesso sono guai.»
Rostov gettò un'occhiata fuori della finestra e vide Denisov che stava tornando a casa. Denisov era un omino dalla faccia rossa, due occhi neri scintillanti, baffi e capelli neri arruffati. Portava una mantellina di pelliccia sbottonata, larghi pantaloni spiegazzati che ricadevano flosci, e in testa aveva un berretto da ussaro sgualcito, buttato sulla nuca. Cupo, a testa bassa, stava avvicinandosi alla scaletta d'ingresso.
«Lavruška,» gridò con voce alta e rabbiosa. «Su, levami gli stivali, bestione!»
«Li levo, li levo,» rispose la voce di Lavruška.
«Ah! Sei già alzato,» disse Denisov entrando nella stanza.
«Da un pezzo,» disse Rostov, «sono già andato a prendere il fieno e ho visto Fräulein Matilde.»
«Ah, bvavo! E invece io, fvatello mio, ievi ho pevso come un figlio d'un cane!» si mise a gridare Denisov, che non riusciva a pronunciare la erre. «Una iella! una iella!... È cominciata appena sei andato via tu. Ehi, il tè!»