imbuto all'entrata. Finalmente i carri e le salmerie passarono, la ressa diminuì e l'ultimo battaglione imboccò il ponte. Soltanto gli ussari di Denisov restavano dall'altra parte del ponte schierati in faccia al nemico. Il nemico, visibile in lontananza dalla collina dirimpetto, in basso, dal ponte, non si vedeva ancora poiché dalla valle in fondo alla quale scorreva il fiume un'altura distante non più di mezzo miglio chiudeva l'orizzonte. Davanti ad essa c'era un terreno deserto sul quale si muovevano gruppi sparsi dei nostri cosacchi in ricognizione. A un tratto, sulla collina apparvero delle truppe in cappotti turchini e pezzi d'artiglieria. Erano i francesi. Una pattuglia di cosacchi, al trotto, scese verso valle. Tutti gli ufficiali e gli uomini dello squadrone di Denisov, sebbene si sforzassero di parlare del più e del meno e di guardare qua e là con indifferenza, pensavano soltanto a quel che c'era lassù, sulla montagna, e scrutavano di continuo le macchie che apparivano sull'orizzonte, nelle quali ravvisavano i soldati nemici. Dopo mezzogiorno il tempo si era nuovamente rischiarato; il sole dardeggiava fulgente sul Danubio e le scure montagne che lo circondavano. Tutto era silenzio; dal monte giungevano ogni tanto suoni di trombe e grida del nemico. Fra lo squadrone e il nemico non c'era ormai più nessuno, eccetto piccole pattuglie. Un terreno deserto di circa cinquecento metri li separava da loro. Il nemico aveva cessato di sparare e questo faceva sentire ancora di più quella linea netta, minacciosa, sfuggente e inavvicinabile che divide due eserciti nemici.
«Un solo passo oltre questa linea, che ricorda la linea che separa i vivi dai morti, e... l'ignoto, il dolore, la morte. E cosa c'è di là? Chi c'è di là? Laggiù, oltre quel campo, e quell'albero, e quel tetto illuminato dal sole? Nessuno lo sa, e invece si vorrebbe saperlo.