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fianco sinistro, in sella al suo azzoppato ma imponente Graèik, aveva l'aria felice di un allievo chiamato davanti a un grande pubblico a sostenere un esame nel quale è sicuro di distinguersi. Guardava tutti con occhio limpido e luminoso, come a pregarli di rivolgere l'attenzione al tranquillo comportamento che sapeva tenere sotto le cannonate. Ma anche sul suo viso era apparsa intorno alla bocca, a dispetto della sua volontà, quella stessa piega nella quale si leggeva qualcosa di nuovo e di severo.   
   «Chi è che fa le vivevenze laggiù? junkev Mivonov! Così non va, guavdate vevso di me!» si mise a urlare Denisov che non riusciva a star fermo e volteggiava con il cavallo davanti allo squadrone.   
   La faccia camusa bluastra di barba di Vas'ka Denisov, e tutta la sua piccola figura arruffata, con la mano nervosa dalle corte dita pelose nella quale reggeva l'elsa della sciabola sguainata, era identica a quella di sempre, specialmente com'era verso sera, quando egli aveva bevute due bottiglie. Egli era solo più rosso del solito: impennando la testa irsuta, come gli uccelli quando bevono, i piccoli piedi che senza pietà piantavano gli speroni nei fianchi del buon Beduin, quasi come se cadesse all'indietro, galoppò verso l'altro fianco dello squadrone e con voce rauca si mise a gridare che controllassero le pistole. Denisov si accostò a Kirsten, e il capitano in seconda gli venne incontro tenendo al passo la sua grossa e tranquilla giumenta. Il capitano, con i suoi lunghi baffi, era serio come sempre: solo i suoi occhi brillavano più del consueto.   
   «Macché!» disse a Denisov. «Non c'è verso di azzuffarci. Torneremo indietro, vedrai.»   
   «Lo sa il diavolo che cosa fanno, quelli!» brontolò Denisov. «Ah! Vostov!» gridò, notando la faccia allegra dello junker. «Be', stavolta ci sei!»   

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