mani. Gli altri lo sorpassarono.
«Dalle due parti, capitano!» udì esclamare dalla voce del comandante del reggimento che, dopo aver cavalcato davanti, adesso era fermo a cavallo, non lontano dal ponte, il volto allegro e trionfante.
Tergendosi sui pantaloni le mani imbrattate, Rostov si volse a guardare il suo avversario e avrebbe voluto correre ancora, pensando che quanto più avanti fosse andato, tanto meglio sarebbe stato. Ma Bogdanyè, sebbene non guardasse né avesse riconosciuto Rostov, gli gridò:
«Chi corre là in mezzo al ponte! A destra! Junker, indietro!» gridò adirato, e si rivolse a Denisov che, facendo sfoggio di ardimento, s'era inoltrato a cavallo sulle tavole del ponte.
«Perché rischiare, capitano? È meglio smontare da cavallo,» disse il colonnello.
«Eh! Chi è veo savà beccato!» rispose Vas'ka Denisov voltandosi sulla sella.
Intanto Nesvickij, Žerkov e l'ufficiale del seguito se ne stavano fuori tiro e si voltavano a guardare ora il gruppetto di uomini in chepì giallo, giubba verde cupo, alamari ricamati e pantaloni turchini che si agitava vicino al ponte, ora, più oltre, i cappotti turchini e i gruppi con i cavalli, facilmente riconoscibili per l'artiglieria, che, ancora lontani, si andavano avvicinando.
«Ce la faranno a incendiarlo? Chi ce la farà prima? Faranno in tempo a correre e a bruciare il ponte, oppure i francesi riusciranno a piazzarsi per il tiro a mitraglia e a massacrarli?» Senza volerlo ognuno, col cuore sospeso, mescolato alla moltitudine delle truppe che si affollavano sul ponte nella chiara luce della sera guardava il ponte e gli ussari e, più