I cannoni francesi venivano di nuovo caricati in tutta fretta. La fanteria vestita dei suoi cappotti azzurri si avviò di corsa verso il ponte. Di nuovo, ma a intervalli diversi, apparvero le piccole nubi di fumo e la mitraglia crepitò scrosciando sul ponte. Ma questa volta Nesvickij non poté vedere ciò che accadeva sul ponte. Gli ussari erano riusciti a incendiarlo e ora si levava un fumo denso. Le batterie francesi ormai non sparavano più per un'azione di disturbo, ma perché i pezzi ormai erano piazzati e c'era su chi sparare.
I francesi fecero in tempo a sparare altri tre tiri di mitraglia prima che gli ussari avessero raggiunto il posto dove avevano lasciato i cavalli. Due tiri andarono a vuoto, ma l'ultimo si abbatté in mezzo al piccolo gruppo di ussari e ne atterrò tre.
Rostov, dominato com'era dal pensiero dei suoi rapporti con Bogdaniyè, si era fermato sul ponte non sapendo più cosa fare. Non c'era nessuno da fare a pezzi (così lui si era sempre immaginato una battaglia), non poteva neanche aiutare ad appiccare il fuoco al ponte, perché non aveva preso con sé delle trecce di paglia come avevano fatto gli altri soldati. Se ne stava in piedi e si guardava in giro quando, a un tratto, sul ponte risuonò un crepitio come di noci sparpagliate e uno degli ussari, il più vicino a lui, si abbatté con un gemito sul parapetto. Rostov corse verso di lui insieme agli altri. Di nuovo qualcuno gridò: «Barella!» Quattro uomini afferrarono l'ussaro e si accinsero a sollevarlo.
«Ooooh!... non toccatemi, per amor di Dio!» si mise a gridare il ferito. Ma venne egualmente sollevato e deposto sulla barella.
Nikolaj Rostov si volse dall'altra parte e, come se cercasse qualcosa, si mise a guardare in lontananza l'acqua del Danubio, il cielo, il sole! Come gli sembrò bello il cielo, così azzurro, così calmo e profondo!