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Com'era fulgido e solenne il sole che tramontava! Come luccicava carezzevole l'acqua del lontano Danubio! E ancora più belli erano i monti lontani che azzurreggiavano oltre il Danubio, il monastero, le gole misteriose, i boschi di pini velati di nebbia fino alle cime... là c'era quiete, la felicità... «Nulla vorrei, nulla. Vorrei solo essere laggiù,» pensava Rostov. «Solo in me e in questo sole è la felicità, mentre qui... gemiti, sofferenze, terrore; e questo caos, questa precipitazione... Ecco, gridano di nuovo qualcosa, di nuovo tutti si sono messi a correre indietro; e io mi metterò a correre con loro. Ed eccola, ecco la morte, sopra di me, intorno a me... Un istante solo, e io non vedrò più questo sole, quest'acqua, questa gola...»   
   Il sole in quel momento si era nascosto dietro le nubi. Davanti a Rostov apparvero altre barelle. E la paura della morte e delle barelle, l'amore per il sole e per la vita: tutto si fuse in una sola impressione di sofferenza e di angoscia.   
   «Signore Iddio. Tu che sei lassù in quel cielo, salvami, perdonami e proteggimi!» mormorò fra sé Nikolaj Rostov.   
   Gli ussari, correndo, avevano raggiunto i guardacavalli; le voci si fecero più sonore e tranquille, le barelle scomparvero alla vista.   
   «Dunque, mio cavo, hai sentito l'odove della polveve?...» gli gridò accanto all'orecchio la voce di Vas'ka Denisov.   
   «È finito tutto, ma io sono un vile; sì, sono un vile,» pensò Rostov. Con un sospiro profondo prese dalle mani dell'attendente il suo azzoppato Graèik, e montò in sella.   
   «Che cos'era? Mitraglia?» chiese a Denisov.   
   «E che mitvaglia!» urlò Denisov. «Avete lavovato da vagazzi che hanno fegato! E il lavovo eva bvutto fovte! Andave alla cavica è bello: tivi

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