c'era un ussaro di Pavlograd. Lo tenevano per le braccia; dietro di lui qualcuno conduceva per la briglia il suo cavallo.
«Certo è uno dei nostri, prigioniero... Sì. Prenderanno anche me? E costoro chi sono?» continuava a pensare Rostov, incapace di credere ai propri occhi. «Possibile che siano i francesi?» Guardava i francesi che si avvicinavano e, sebbene un istante prima galoppasse solo per raggiungere quei francesi e farli a pezzi, la loro vicinanza gli sembrava così spaventosa che ora non riusciva a credere ai propri occhi. «Chi sono? Perché corrono? Verso di me? Corrono proprio verso di me? Ma perché? Per uccidermi? Uccidere me, a cui tutti vogliono bene?» Si ricordò dell'amore che avevano per lui sua madre, la famiglia, gli amici; il proposito dei nemici di ucciderlo gli parve assurdo. «Magari - proprio per uccidermi!» Per qualche istante rimase fermo, senza muoversi di dov'era e senza comprendere la propria situazione. Il francese col naso aquilino che precedeva tutti, si era così avvicinato che già si vedeva l'espressione della sua faccia. E la fisionomia esaltata, estranea di quell'uomo che correva a grandi passi leggeri verso di lui con la baionetta inastata, trattenendo il respiro, lo lasciò atterrito. Egli afferrò la pistola, ma, invece di sparare, la scagliò contro il francese e cominciò a correre più in fretta che poteva verso i cespugli. Non correva col sentimento di dubbio e di lotta con cui s'era inoltrato sul ponte dell'Enns, ma piuttosto come una lepre inseguita dai cani. Un unico, indistinto timore per la sua vita così giovane, così felice, dominava tutto il suo essere. Saltando agilmente fra i solchi dei campi, con lo stesso impeto col quale correva quando giocava a gorelki, adesso volava per la campagna, volgendo ogni tanto all'indietro la sua faccia pallida, buona, giovane; e il brivido d'orrore gli percorreva la schiena. «No, meglio non guardare,»