insieme, si misero a dargli e a trasmettergli ordini sul come e dove andare, e a fargli osservazioni e rimproveri. Tušin non dava ordini e cavalcava in silenzio dietro tutti in sella al suo ronzino d'artiglieria, timoroso di parlare perché ad ogni parola, e senza sapere il perché, era pronto a mettersi a piangere. Sebbene fosse stato dato ordine di abbandonare i feriti, molti di loro si trascinavano dietro le truppe e invocavano un posto sui cannoni. Quello stesso baldanzoso ufficiale di fanteria che prima della battaglia era sbucato fuori dalla baracchetta di Tušin, adesso era deposto sull'affusto della Matvevna con una pallottola nel ventre. A valle, un pallido junker degli ussari, che si reggeva una mano con l'altra, si accostň a Tušin e chiese di farlo salire.
«Capitano, per amor di Dio, sono contuso a una mano,» disse timidamente. «Per amor di Dio, non posso camminare. Per amor di Dio!»
Si capiva che lo junker aveva giŕ chiesto ad altri di salire su un traino e ne aveva avuto un rifiuto. Egli supplicava con voce querula e compassionevole.
«Date ordine di farmi salire, per amor di Dio.»
«Fatelo salire, fatelo salire,» disse Tušin. «Tu, zio, stendigli un pastrano,» disse, rivolgendosi al suo soldato prediletto. «Ma dov'č l'ufficiale ferito?»
«L'hanno abbandonato: era morto,» rispose qualcuno.
«Fatelo salire. Salite, caro, sedetevi. Stendigli un pastrano, Antonov.»
Lo junker era Rostov. Si reggeva una mano con l'altra. Era pallido, e la mascella inferiore gli tremava, scossa da un fremito febbrile. Lo fecero salire sulla Matvevna, lo stesso cannone dal quale era stato scaricato l'ufficiale morto. Il pastrano che gli adagiarono sotto era