macchiato di sangue, e Rostov se ne macchiò i calzoni e le mani.
«Cos'è, siete ferito, colombella?» disse Tušin, avvicinandosi al cannone su cui si trovava Rostov.
«No, contuso.»
«Perché allora c'è sangue sull'affusto?»
«È il sangue dell'ufficiale, eccellenza,» rispose un artigliere, tergendo il sangue con la manica del pastrano e come scusandosi per la scarsa pulizia del cannone.
A gran fatica, con l'aiuto della fanteria, i cannoni furono trainati su per la collina. Poi, raggiunto il villaggio di Gunthersdorf, fecero sosta. Era già così buio, che a dieci passi di distanza, non si distinguevano le divise dei soldati. La sparatoria cominciò a diradarsi. All'improvviso, sulla destra, a poca distanza risuonarono di nuovo grida e fucilate. Nel buio si distingueva il bagliore degli spari. Era l'ultimo attacco dei francesi, al quale rispondevano i nostri appostati nelle case del villaggio. Di nuovo tutti si precipitarono fuori del villaggio, ma i cannoni di Tušin non potevano più esser schierati in linea, cosicché gli artiglieri, Tušin e Rostov restarono a guardarsi in silenzio, in attesa di subire la loro sorte. Poi gli spari cominciarono a diminuire e da una strada laterale sbucarono dei soldati che parlavano animatamente.
«Sei sano, Petrov?» domandava uno.
«Gliele abbiamo date di santa ragione, caro mio. Adesso non si faranno più vedere,» diceva un altro.
«Non si vede niente. Hai visto che se le davano fra loro? Non si vede nulla: è buio, ormai. Non c'è qualcosa da bere?»
I francesi erano stati respinti un'ultima volta. E di nuovo nell'oscurità più completa, i pezzi di Tušin, circondati come da una