Quella notte Rostov era con un plotone sulla linea degli avamposti, davanti al distaccamento di Bagration. I suoi ussari erano disposti a catena, a due a due; lui percorreva a cavallo quel tratto degli avamposti sforzandosi di vincere il sonno che inesorabilmente lo sopraffaceva. Alle sue spalle si vedeva l'enorme estensione dei falò del nostro esercito che ardevano indistinti nella nebbia; davanti a lui c'era un'oscurità nebbiosa. Per quanto Rostov scrutasse in quella nebbiosa lontananza, non vedeva nulla: a volte traspariva qualcosa di grigio, a volte di nero; a volte laggiù, dove doveva esserci il nemico, sembravano baluginare delle luci; a volte gli pareva di prendere un abbaglio. Gli occhi gli si chiudevano, e nella sua immaginazione apparivano ora l'imperatore, ora Denisov, ora i ricordi di Mosca; e poi li riapriva in fretta e vicina, davanti a sé, vedeva la testa e le orecchie del suo cavallo, o nere figure di ussari, quando arrivava a sei passi da loro, e in lontananza sempre quella tenebra nebbiosa.
«Perché no? Potrebbe benissimo accadere,» pensava Rostov, «che l'imperatore, incontrandomi, mi affidasse un incarico come a qualsiasi altro ufficiale; che mi dicesse: "Va', cerca di sapere che cosa c'è laggiù." È stato detto tante volte che, del tutto per caso, egli abbia conosciuto così qualche ufficiale e l'abbia voluto accanto a sé. E se volesse vicino proprio me? Oh, come lo difenderei, come gli direi tutta la verità, come smaschererei tutti coloro che lo ingannano!»
E Rostov, per raffigurare a se stesso con assoluta vivezza il suo amore e la sua devozione verso l'imperatore, si immaginava un nemico o un tedesco traditore che non soltanto lui uccideva con piacere, ma schiaffeggiava sotto gli occhi dell'imperatore. D'improvviso, un grido lontano lo destò. Ebbe un sussulto e aprì gli occhi.