«Dove sono? Ah sì, sugli avamposti; parola d'ordine e controparola: timone, Olmütz. Che rabbia che il nostro squadrone domani sia di riserva...» pensò. «Chiederò d'essere mandato sulla linea del fuoco. È forse l'unica occasione che mi si presenta di vedere l'imperatore. Sì, adesso non manca più molto al cambio. Farò ancora un giro e poi, quando sarò di ritorno, andrò dal generale e glielo chiederò.»
Si assestò sulla sella e spronò il cavallo per ispezionare ancora una volta i suoi ussari. Gli parve che ci fosse un po' più di luce. A sinistra si vedeva un dolce declivio illuminato e, di fronte, una collina nera, ripida come una parete. Su quella collina c'era una macchia bianca che Rostov non riusciva in alcun modo a spiegarsi: era la radura di un bosco illuminata dalla luna, o una chiazza di neve residua, o delle case bianche? Gli parve perfino che su quella macchia bianca qualcosa si muovesse.
«Probabilmente è neve quella macchia. Una macchia: une tache,» pensava Rostov. «Une tache... Nataša, sorella, occhi neri. Nataša... (Chissà come si meraviglierà quando le dirò che ho visto l'imperatore!) Nataša... prendi la tasca...»
«Più a destra, vossignoria, qui ci sono dei cespugli,» disse la voce di un ussaro vicino al quale Rostov passava a cavallo, già mezzo addormentato.
Rostov alzò il capo che gli era già cascato giù fino alla criniera del cavallo, e si fermò accanto all'ussaro. Un sonno giovane, da fanciullo, lo vinceva in modo irresistibile.
«Ma a cosa stavo pensando? Non devo dimenticarmene. Forse a come dovrò parlare all'imperatore? No, a questo penserò domani. Sì, sì! Sì, la tasca... attaccare... chi? Gli ussari. Ussari e baffi... Per la Tverskaja