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incontrarono un compagno d'arme. Denisov bevve tre bottiglie di vino insieme a costui e, sebbene fossero ormai vicino a Mosca, seguitò a dormire nonostante tutte le buche della strada, sdraiato sul fondo della slitta postale accanto a Rostov, il quale invece, via via che si avvicinavano alla città, diventava sempre più impaziente.   
   «Quanto c'è ancora? Quanto c'è ancora? Oh, queste strade insopportabili; queste botteghe, questi kalaèi, questi lampioni, questi vetturini!» seguitava a rimuginare Rostov anche quando ebbero fatto vidimare le loro licenze alla barriera della città e furono entrati in Mosca.   
   «Denisov, siamo arrivati! E lui dorme!» diceva, protendendosi con tutto il corpo, come se sperasse di accelerare così il movimento della slitta. Denisov non rispose.   
   «Ecco l'incrocio e l'angolo, dove sta Zachar, il vetturino; ed eccolo, Zachar, sempre con lo stesso cavallo. Ecco anche il negozietto dove andavamo a comperare il panforte. Quanto c'è ancora? Avanti!»   
   «Qual è la casa?» domandò il postiglione.   
   «Quella laggiù in fondo; quella casa grande, non la vedi? È la nostra casa,» disse Rostov; «è la nostra casa! Denisov! Denisov! Siamo arrivati.»   
   Denisov sollevò il capo, tossì e non rispose.   
   «Dmitrij,» chiese Rostov rivolgendosi al domestico seduto a cassetta. «Quel lume è acceso su da noi, vero?»   
   «Sì, signore; è acceso nello studio di vostro padre.»   
   «Allora vuol dire che non sono ancora andati a letto, eh? Tu che cosa ne dici? Mi raccomando, non dimenticarti di tirar subito fuori la mia giubba nuova,» aggiunse Nikolaj toccandosi i baffi che s'era fatto

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