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   «Signori,» disse Dolochov, dopo aver tenuto banco per un certo tempo, «vi prego di posare i denari sulle carte, altrimenti potrei sbagliarmi nel contare.»   
   Uno dei giocatori disse che sperava ci si potesse fidare di lui.   
   «Certo che ci si può fidare, ma ho paura di confondermi; vi prego dunque di posare i soldi sulle carte,» rispose Dolochov. «Tu non aver timore per i soldi, poi faremo i conti fra noi,» aggiunse, rivolto a Rostov.   
   Il gioco continuò; un cameriere serviva champagne senza interruzione.   
   Tutte le puntate di Rostov andavano male e a suo carico erano già segnati ottocento rubli. Stava per segnare su una sola carta ottocento rubli, ma poi ci ripensò e, mentre il cameriere gli serviva lo champagne, fece la solita puntata di venti rubli.   
   «Lascia così,» disse Dolochov, quantunque sembrasse non guardare Rostov. «Ti rifarai prima. Con gli altri perdo e con te vinco. O hai paura di me?» aggiunse.   
   Rostov gli diede retta; lasciò gli ottocento rubli che aveva segnato e giocò il sette di cuori con un angolo strappato, che aveva raccolto per terra. In seguito se ne ricordò assai bene. Mise il sette di cuori dopo avervi scritto sopra ottocento in cifre tonde e dritte con un gessetto rotto; tracannò il calice di champagne che gli era stato servito ed ora non era più fresco, sorrise alle parole di Dolochov, e, aspettando un sette col cuore sospeso, prese a guardare le mani di Dolochov che tenevano il mazzo. La vincita o la perdita di quel sette di cuori voleva dire molto, per Rostov. La domenica della settimana precedente il conte Ilja Andrejè aveva dato al figlio duemila rubli, e sebbene evitasse sempre di parlare di difficoltà economiche, gli aveva detto che quei soldi erano gli

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