ultimi fino a maggio, e che perciò lo pregava di essere, per quella volta, un po' meno scialacquatore. Nikolaj aveva risposto che per lui quella somma era perfino troppo, e che gli dava la sua parola d'onore di non aver più bisogno di denari fino a primavera. Adesso di questi soldi restavano milleduecento rubli. Dunque, quel sette di cuori non solo poteva fargli perdere milleseicento rubli, ma l'avrebbe costretto a mancare alla parola data. Egli guardava col cuore sospeso le mani di Dolochov e pensava: «Su, presto, dammi questa carta e io prendo il mio berretto, me ne vado a casa a cena con Denisov, Nataša e Sonja, e non prenderò mai più nelle mani una sola carta.» In quell'istante la sua vita domestica - gli scherzi con Petja, le conversazioni con Sonja, i duetti con Nataša, la partita a piquet col padre e perfino il suo letto tranquillo nella casa di via Povarskaja - gli apparivano davanti agli occhi con tanta evidenza, tanta chiarezza e tanto fascino, da sembrare che tutto ciò appartenesse a una felicità da tempo trascorsa, perduta e mai abbastanza apprezzata. Egli non poteva ammettere che uno stupido caso, facendo sì che il sette si posasse a destra invece che a sinistra, potesse privarlo di quella felicità che ora vedeva in modo nuovo, illuminata di una nuova luce, e precipitarlo nell'abisso di un'infelicità indefinibile, mai provata fino allora. Ciò non poteva accadere, e tuttavia aspettava col cuore sospeso il movimento delle mani di Dolochov. Queste mani rossicce dalle ossa forti, con i peli che spuntavano di sotto la camicia, posarono il mazzo di carte, poi afferrarono il bicchiere che gli veniva offerto e la pipa.
«Non hai paura, dunque, a giocare con me?» ripeté Dolochov; e come se volesse raccontare una storia divertente, posò le carte, si rovesciò sulla spalliera della sedia e prese a raccontare lentamente con un sorriso:
» Sì, signori, mi hanno detto che a Mosca corre voce che io sia un