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i peli che spuntavano di sotto la camicia; quelle mani che lui amava e odiava, lo tenevano in loro potere.   
   «Seicento rubli, asso, raddoppio, nove... impossibile rifarsi!... Ah, come starei bene a casa mia... Fante, pareggio... No, non può essere!... Che ragione ha, lui, per farmi questo?...» pensava e ricordava Rostov. Talvolta avrebbe voluto fare una puntata forte, ma Dolochov rifiutava di giocarla ed era lui stesso a stabilire la posta. Nikolaj gli si sottometteva, e ora pregava Dio come l'aveva pregato sul campo di battaglia al ponte di Amstetten; ora immaginava che la prima carta gli fosse capitata fra le mani, nel mucchio di carte piegate buttate sotto la tavola, sarebbe stata quella che l'avrebbe salvato; ora contava quanti cordoncini c'erano sulla sua giubba e cercava di puntare una cifra pari a tutta la perdita su una carta che avesse lo stesso numero di punti; ora si voltava a guardare gli altri giocatori in cerca d'aiuto; ora scrutava il viso di Dolochov, che ora appariva gelido, e si sforzava di capire ciò che avveniva dentro di lui.   
   «Eppure lo sa che cosa significa per me, questa perdita. Perché dovrebbe desiderare la mia rovina? Lui mi era amico. E io gli volevo bene... Ma lui non ne ha colpa; che cosa può farci se la fortuna è dalla sua parte? E nemmeno io ne ho colpa,» ripeteva a se stesso. «Io non ho fatto nulla di male. Ho forse ammazzato, usato un torto a qualcuno, desiderato il male? E perché, allora questa tremenda sfortuna? E quando è cominciata? Poco fa mi sono avvicinato a questo tavolo sperando di vincere cento rubli, di comperare quella scatoletta a maman per il suo onomastico e poi andare a casa. Ero così felice, così libero, così allegro! Allora non capivo quanto fossi felice! Ma quando è finito tutto ed è cominciata questa nuova, quest'orribile situazione? Da che cosa è stato segnato

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