Sono in gioco ventun rubli,» disse, mostrando la cifra ventuno che eccedeva il conto tondo di quarantatremila rubli; poi, preso il mazzo, si accinse a dare le carte. Rostov raddrizzò docilmente l'angolo piegato della carta e, invece dei seimila rubli che aveva preparato, scrisse ventuno.
«Per me fa lo stesso,» disse; «a me interessa soltanto sapere se tu vincerai o mi darai questo dieci.»
Dolochov si mise a distribuir le carte con aria compunta. Ah, in quel momento Rostov odiava quelle mani rossicce dalle dita corte, dai peli che si scorgevano di sotto la camicia, e che lo tenevano in loro potere... Il dieci toccò a lui.
«Mi dovete quarantatremila rubli, conte,» disse Dolochov e, stiracchiandosi, si alzò dal tavolo. «Ci si stanca a star seduti per tanto tempo,» disse.
«Sì, anch'io sono stanco,» disse Rostov.
Dolochov, quasi per ricordargli che per lui non era il caso di scherzare, lo interruppe:
«Quando siete disposto a versare il denaro, conte?»
Rostov arrossì, poi chiamò Dolochov in un'altra stanza.
«Io non posso pagare tutto così, in una volta; ti darò una cambiale,» disse.
«Senti, Rostov,» disse Dolochov con il suo sorriso luminoso, guardando negli occhi Nikolaj; «tu lo conosci, vero, il proverbio? "Fortunato in amore, sfortunato al gioco." Tua cugina è innamorata di te, lo so.»
«È spaventoso sentirsi così, in balia di quest'uomo,» pensava Rostov. Egli sapeva bene quale colpo sarebbe stato per suo padre, per sua madre l'annuncio di quella perdita al gioco; e parimenti capiva quale felicità