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fuori dalla baracca e l'abbracciò, e gli ufficiali attorniarono il nuovo arrivato, Rostov si commosse come quando lo abbracciavano sua madre, suo padre e le sue sorelle, e le lacrime di gioia che gli facevano nodo alla gola gli impedirono di parlare. Anche il reggimento era una casa: una casa di una dolcezza immutabile, come era appunto la casa dei genitori.   
   E quando si fu presentato al comandante, venne assegnato al consueto squadrone, ebbe fatto i suoi turni di guardia e di foraggiamento e fu rientrato nei piccoli interessi del reggimento, Rostov, sentendosi privato della libertà e inchiodato in quell'unica stretta e immutabile cornice, provò la stessa tranquillità, lo stesso senso di protezione e la stessa coscienza di trovarsi a casa propria, al proprio posto, che sentiva in casa dei suoi genitori. Non c'era, qui, tutta quella baraonda del mondo libero in cui non riusciva a trovare il proprio posto e sbagliava nelle sue scelte; non c'era Sonja, con la quale bisognava prima o poi pervenire a una spiegazione. Non c'era la possibilità di andare o di non andare in un certo posto; non c'erano quelle ventiquattro ore della giornata che potevano essere consumate in tanti modi diversi; non c'era quella moltitudine di persone, tutte indifferenti, tutte a pari distanza da te stesso; non c'erano quei confusi e poco determinati rapporti di denaro con suo padre, e nemmeno alcunché a rammentare la spaventosa perdita al gioco con Dolochov! Lì, al reggimento, tutto era chiaro, tutto era semplice. Il mondo intero era diviso in due parti diseguali: una, il nostro reggimento di Pavlograd, e l'altra, cioè tutto il resto. E con questo resto non c'era nulla da spartire. Nel reggimento tutto era noto: chi fosse tenente, chi capitano, chi una brava persona e chi una cattiva, e chi, soprattutto, fosse un compagno. Il vivandiere vendeva a credito, la paga veniva percepita ogni quadrimestre, non c'era nulla da inventare e da scegliere,

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