modo che al centro della buca si potesse stare in piedi e sui letti persino star seduti, almeno di fronte al tavolo. Denisov, che per merito dei soldati del suo squadrone che gli volevano bene, viveva in modo lussuoso, disponeva anche, sulla parte anteriore del tetto, di una tavola su cui era stato riappiccicato un vetro rotto. Quando faceva molto freddo, sugli scalini (in anticamera, come Denisov chiamava questa parte del covo) trasportavano su una lastra concava di ferro un po' di fuoco prelevato dai falò dei soldati, e allora faceva così caldo, che gli ufficiali, sempre numerosi da Denisov e da Rostov, se ne stavano in maniche di camicia.
In aprile Rostov era di servizio. Una mattina, verso le otto, rientrando dopo una notte insonne, ordinò che gli portassero del fuoco, si cambiò la biancheria fradicia di pioggia, recitò le preghiere, bevve il tè, si scaldò per bene, riordinò la roba nel suo angolo e sulla tavola; poi, con la faccia che scottava, bruciata dal vento, si sdraiò sulla schiena, in maniche di camicia, annodando le mani dietro la testa. Andava preconizzando il piacere che a giorni si attendeva, con una promozione che doveva arrivargli in conseguenza dell'ultima ricognizione effettuata e frattanto aspettava Denisov, che era andato in qualche posto. Aveva voglia di chiacchierare con lui.
Dietro il ricovero si udì la voce rimbombante di Denisov che gridava, evidentemente in collera per qualcosa. Rostov si avvicinò alla finestra per vedere con chi se la prendesse e scorse il maresciallo d'alloggio Topèeenko.
«Ti avevo dato ovdine di non pevmetteve che mangiassevo quella vadice, di Maša o come si chiama!» gridava Denisov. «Ho visto io con i miei occhi Lazavèuk che se la povtava via dal campo!»
«Io ho trasmesso l'ordine, eccellenza, ma non obbediscono,» rispose il