salasso. Dal braccio villoso di Denisov uscì del sangue nero, tanto da colmare una scodella, e allora soltanto egli fu in grado di raccontare tutto quello che gli era accaduto.
«Avvivo,» raccontò Denisov. «"Be', dov'è che sta il vostvo capo?" Me lo indicano. "Non vovveste aspettave un poco?" "Sono in sevvizio, io, non ho tempo d'aspettave, annunciami." Bene, vien fuori quel malandvino in capo; anche lui si mette in testa di insegnavvmi. "È una vapina!" "Una vapina," dico, "non la fa chi pvende dei vivevi pev nutvive i suoi soldati, ma chi pvende pev mettevseli in tasca!" Bene. "Fivmate," dice, "dal commissavio, e la vostva pvatica vevvà inoltvata pev via gevavchica." Vado dal commissavio. Entvo: e al tavolo chi vedo? Indovina chi ci fa movive di fame!» si mise a gridare Denisov battendo sul tavolo con il pugno del braccio dal quale era stato cavato il sangue, con tanta forza che il tavolo per poco non crollò e i bicchieri vi tremarono sopra. «Teljamin! "Come, sei tu che ci fai movive di fame?" E giù un colpo, poi un altvo sul muso, m'è viuscito così bene... Ah, vazza d'un... e quello ha cominciato a fav givavolte! Pevò mi sono levata la soddisfazione, posso divlo,» gridò Denisov con un misto di gioia e di rabbia, mostrando i suoi denti bianchi sotto i baffi neri. «Se non me l'avessevo tolto di sotto, finivo pev ammazzavlo.»
«Ma che hai da gridare? Calmati!» esclamò Rostov. «Ecco che ti esce dell'altro sangue. Aspetta, bisogna bendarti di nuovo.»
Rifecero la fasciatura e misero Denisov a letto. Il giorno dopo si svegliò allegro e tranquillo.
Ma a mezzogiorno l'aiutante di campo del comandante con un volto serio e desolato si presentò al ricovero di Denisov e di Rostov, e mostrò un documento ufficiale che il comandante del reggimento inviava al maggiore