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investito da un lezzo soffocante di carne putrefatta e di infermeria. Sulla scala incontrň un medico militare russo con il sigaro in bocca, seguito da un infermiere.   
   «Non posso mica farmi in quattro,» diceva il dottore. «Vieni stasera da Makar Aleksevič, mi troverai lŕ.»   
   L'infermiere gli domandň qualche altra cosa.   
   «Fa' un po' come ti pare! Non č forse lo stesso?» Il dottore si accorse di Rostov che stava salendo le scale.   
   «Ehi, voi, che fate qui?» chiese il dottore.   
   «Che cosa siete venuto a fare? Se non vi siete beccato una palla, volete pigliarvi il tifo? Questo č un ricovero di appestati, batjuška.»   
   «Perché?» domandň Rostov.   
   «C'č il tifo, batjuška. Tifo. Per chiunque entra qua, č la morte. Solo noi due, io e Makeev (e indicň l'infermiere) ci possiamo stare. Di noi medici qui ne sono giŕ morti cinque. Appena ne arriva uno nuovo, nel giro di una settimana č bell'e spacciato,» continuň il dottore con visibile soddisfazione. «Hanno chiamato dei dottori prussiani, ma a quanto pare questo posto non piace, ai nostri alleati.»   
   Rostov gli spiegň che desiderava vedere il maggiore degli ussari Denisov, che si trovava ricoverato in quell'ospedale.   
   «Non so, non lo conosco, batjuška. Pensate un po': ho sulle spalle tre ospedali, e sono solo! Quattrocento degenti e forse anche piů! Meno male che le dame di beneficenza prussiane ci mandano garza e due libbre di caffč al mese, altrimenti saremmo perduti.» Scoppiň a ridere. «Quattrocento, batjuška, e me ne arrivano sempre di nuovi. Sono quattrocento, sě o no?» domandň rivolto all'infermiere.   
   L'infermiere aveva un'aria spossata. Aspettava con palese stizza che

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