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   «Si potrebbe entrare a guardare?» domandò.   
   «Che cosa volete guardare?» disse l'infermiere.   
   Rostov, proprio perché si capiva che l'infermiere non voleva lasciarlo entrare, s'inoltrò nelle corsie dei soldati. Il lezzo del corridoio, al quale ormai era riuscito ad assuefarsi, qui era ancora più forte. Ed era diverso: era più acre e si capiva che da qui, appunto, dilagava dappertutto.   
   Nel lungo stanzone, vivamente illuminato dal sole che penetrava dalle grandi finestre, su due file, con le teste verso il muro e lasciando un passaggio nel centro, giacevano i malati e i feriti. Per la maggior parte erano in stato d'incoscienza e non rivolsero alcuna attenzione ai due che erano entrati. Gli altri si sollevarono a mezzo o alzarono le loro lunghe facce scarne, guardando Rostov senza distogliere gli occhi, con un'eguale espressione di speranza in un soccorso, di rimprovero e d'invidia. Rostov arrivò in mezzo allo stanzone, lanciò uno sguardo attraverso le porte spalancate nei locali adiacenti e dalle due parti vide lo stesso spettacolo. Si fermò, guardandosi attorno in silenzio. Non era preparato a vedere nulla di simile. Proprio davanti a lui un malato giaceva quasi di traverso al passaggio, sul nudo impiantito: probabilmente era un cosacco perché aveva i capelli tagliati in tondo. Costui giaceva supino con le braccia e le gambe divaricate. La sua faccia era di un rosso scarlatto, gli occhi stravolti, tanto che se ne scorgeva solamente il bianco; sulle gambe nude e sulle sue braccia, anch'esse di un color rosso acceso, le vene risaltavano come corde. Egli sbatté la nuca contro il pavimento, rantolando profferì una parola e poi cominciò a ripeterla. Rostov tese l'orecchio e riuscì a comprendere quella parola: «Da bere, da bere!» ripeteva il cosacco. Rostov si guardò attorno, cercando qualcuno che

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