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Non siamo cani, siamo uomini anche noi...»   
   «Mando subito, lo porteranno via, lo porteranno via,» disse in fretta l'infermiere. «Favorite, eccellenza.»   
   «Andiamo, andiamo,» disse in fretta Rostov. Chinò gli occhi e cercando di farsi piccolo, come per riuscire a passare inosservato in mezzo a quegli occhi pieni di rimprovero e d'invidia, uscì dalla camerata.   
   

   Capitolo XVIII   

   
   Attraverso il corridoio l'infermiere condusse Rostov nel reparto ufficiali, costituito da tre stanze con le porte spalancate. Qui c'erano dei letti, e gli ufficiali feriti o ammalati vi stavano sdraiati o seduti. Alcuni passeggiavano per le stanze indossando dei camici da ospedale. La prima persona che Rostov incontrò nel reparto ufficiali fu un uomo piccolo e magro, senza un braccio, in camice e zucchetto, che passeggiava nella prima stanza con una pipetta rosicchiata nella bocca. Rostov lo guardò attentamente, cercando di ricordarsi dove lo avesse visto.   
   «Ecco dove Dio ci ha fatti incontrare,» disse l'ometto. «Sono Tušin. Tušin. Ricordate quando vi trasportai sul cannone, laggiù a Schöngraben? Mi hanno tagliato via un pezzetto, ecco...» disse sorridendo e indicando la manica vuota della vestaglia. «Cercate Vasilij Dmitrieviè Denisov? Sì, è un coinquilino!» disse quando ebbe udito che Rostov lo stava cercando. «Qui, qui.» E Tušin lo condusse in un'altra stanza dalla quale provenivano le risate di alcune persone.   
   «Ma come fanno non soltanto a vivere, ma addirittura a ridere, in un posto come questo?» pensava Rostov, continuando a percepire quel fetore di carne in putrefazione del quale ormai anche lui era stato impregnato già

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