fine?» pensava, guardando un ufficiale che entrava nella casa occupata dall'imperatore. «Ecco, c'è pure qualcuno che entra, no? Sono tutte sciocchezze! Vado e consegno io stesso la lettera all'imperatore; tanto peggio per Drubeckoj che mi ha costretto a una decisione simile.»
A un tratto, con una decisione che egli stesso ignorava di avere, Rostov, tastando la lettera che teneva in tasca, si avviò speditamente verso la casa occupata dall'imperatore.
«No, questa volta non mi lascerò sfuggire l'occasione, come ho fatto dopo Austerlitz,» pensava, aspettando ogni istante di incontrare l'imperatore e sentendo che a questo pensiero il sangue gli affluiva al cuore. «Gli cadrò ai piedi e lo supplicherò. Lui mi solleverà, presterà ascolto alle mie parole, anzi, mi ringrazierà. "Io sono felice quando posso fare del bene, ma riparare a un'ingiustizia è la felicità suprema,"» pensava Rostov, immaginando così le parole dell'imperatore. E, seguito dagli sguardi incuriositi dei presenti, si avviò verso l'ingresso della casa occupata dall'imperatore.
Dall'ingresso un'ampia scala conduceva direttamente al piano superiore; a destra si vedeva una porta chiusa. Giù, sotto la scala, c'era la porta che immetteva nelle stanze del pianterreno.
«Che cosa desiderate?» domandò qualcuno.
«Consegnare una lettera, una supplica a sua maestà,» disse Nikolaj, con un tremito nella voce.
«Se è una supplica, consegnatela all'ufficiale di servizio; favorite da questa parte. (E gli fu indicata la porta in basso). Ma non riceve.»
Nell'udire questa voce indifferente, Rostov ebbe paura di ciò che stava facendo; il pensiero di poter incontrare a ogni istante l'imperatore era così seducente - e proprio per questo così terribile - che Nikolaj era sul