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   Maledicendo la sua audacia, tremando al pensiero che ad ogni istante avrebbe potuto imbattersi nell'imperatore ed essere svergognato e messo agli arresti in sua presenza, rendendosi pienamente conto di quanto la sua azione fosse stata sconveniente, Rostov ormai pentito cercava ad occhi bassi di uscire dalla casa circondata dalla folla del seguito, quando fu chiamato da una voce che conosceva, e un braccio lo fermò.   
   «Che fate qui in frac, batjuška?» gli domandò quella voce di basso.   
   Era il generale di cavalleria che in quella campagna si era conquistato la particolare benevolenza dell'imperatore ed era stato il comandante della divisione in cui Rostov prestava servizio.   
   Spaventato, Rostov cominciò a giustificarsi, ma accorgendosi dell'espressione bonaria e scherzosa del generale, fattosi un poco da parte con voce emozionata riferì l'intera faccenda, supplicandolo di intercedere a favore di Denisov, che del resto il generale conosceva. Il generale, dopo aver ascoltato Rostov, scosse il capo con espressione grave.   
   «Mi dispiace, mi dispiace per quel ragazzo così in gamba! Dammi la lettera.»   
   Rostov aveva appena avuto il tempo di consegnare la lettera e raccontare tutto ciò che riguardava Denisov, quando per la scala risuonarono dei passi rapidi e un suono di speroni e il generale, allontanandosi da lui, si portò verso l'ingresso. I signori del seguito dell'imperatore corsero giù per la scala e si diressero verso i cavalli. Il maestro d'equitazione Enée, lo stesso che si era trovato ad Austerlitz, portò il cavallo dell'imperatore e sulla scala si udì un leggero scricchiolio di passi che Rostov riconobbe subito. Dimenticando il pericolo di essere riconosciuto, egli si avvicinò con alcuni curiosi del

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