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a un'ansia febbrile e una grande attività. Fin dal mattino tutte le sue energie si erano concentrate su un unico scopo: lei, la mamma, Sonja, dovevano essere vestite il meglio possibile. Sonja e la contessa le si erano affidate interamente. La contessa avrebbe indossato un abito di velluto massacat; lei e Sonja degli abiti di tulle bianco con sottogonne di seta rosa e roselline al corsage. I capelli dovevano essere acconciati à la grecque.   
   L'essenziale era già stato fatto: gambe, braccia, collo, orecchie erano già state lavate, profumate e incipriate con la cura speciale che si mette in tali cose in vista di un ballo; avevano già infilato le calze di seta à jour e le scarpine di raso bianco con i fiocchetti; le acconciature erano già quasi ultimate. Sonja stava finendo di vestirsi, ed anche la contessa; ma Nataša, che si era data da fare per tutti, era ancora indietro. Sedeva davanti allo specchio con il peignoir gettato sulle piccole spalle magre. Sonja, già vestita, stava ritta in mezzo alla camera, e premendo col piccolo dito fino a farsi male appuntava l'ultimo nastro che strideva sotto la spilla.   
   «No, Sonja, non così,» esclamò Nataša, volgendo il capo mentre glielo stavano acconciando e afferrandosi con le mani i capelli trattenuti dalla cameriera che non aveva fatto in tempo a lasciarli. «Così quel nastro non va, vieni qui.»   
   Sonja venne ad accoccolarlesi accanto. Nataša le appuntò il nastro in modo diverso.   
   «Scusate, signorina, ma a questo modo non posso far niente,» disse la cameriera che reggeva i capelli di Nataša.   
   «Oh, Dio mio; un momento, un momento! Ecco, Sonja: così!»   
   «Siete pronte?» si udì la voce della contessa. «Sono già le dieci.»   

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