mattino del 15 settembre, quando il giovane Rostov, in veste da camera, guardò fuori della finestra, vide che la giornata non poteva essere migliore per la caccia: era come se il cielo si fosse sciolto per calare sulla terra senza un alito di vento. L'unico movimento che si avvertiva nell'aria era il placido cadere di microscopiche gocciole di brina o di nebbia che piovevano verso il suolo. Ai rami spogli del giardino erano appese gocce trasparenti che scivolavano sulle foglie da poco cadute. La terra dell'orto nereggiava umida e lucente come i semi di papavero, e a breve distanza si fondeva con la coltre di nebbia, umida e opaca. Nikolaj uscì sulla scala d'ingresso, bagnata e schizzata di fango; c'era odore di cani e di bosco autunnale. La cagna Milka, pezzata di nero, dalla larga groppa e dai grandi occhi neri sporgenti, vide il padrone, si rizzò in piedi, poi si stirò all'indietro e si accucciò come una lepre. Alla fine, in modo del tutto inatteso, fece un balzo e gli diede una linguata proprio sul naso e sui baffi. Un altro cane, un levriero, visto il padrone da un vialetto bordato di fiori, inarcò la schiena e si lanciò di corsa verso l'ingresso; poi, tenendo la coda eretta, cominciò a strofinarsi contro le gambe di Nikolaj.
«Oh-ohi!» risuonò in quel momento l'inimitabile richiamo dei cacciatori che fonde il timbro del basso più profondo con quello più acuto del tenore, e, da dietro un angolo, saltò fuori Danila il capomuta, un cacciatore brizzolato e rugoso, dai capelli tagliati in tondo all'ucraina, con in mano uno scudiscio ricurvo e quell'espressione di autosufficienza e di disprezzo per ogni cosa al mondo che hanno solamente i cacciatori. Di fronte al padrone si levò il berretto alla circassa e lo guardò con aria sprezzante. Ma quel disprezzo non era offensivo per il padrone: Nikolaj sapeva che quel Danila che aveva tutto in dispregio e si riteneva al di