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di Ilagin.   
   «Quando quella ha fatto cilecca, qualunque bastardo sarebbe riuscito a prenderla in quel modo,» osservò nello stesso momento Ilagin che, rosso in viso, respirava a fatica per la galoppata e per l'emozione.   
   Nello stesso istante Nataša, senza nemmeno riprender fiato, lanciava grida di gioia e d'entusiasmo così laceranti, da rintronare le orecchie. E quegli strilli erano così strani, che lei per prima avrebbe dovuto vergognarsene, e tutti del resto, se ne sarebbero stupiti se li avesse lanciati in un altro momento. Lo zio con le sue mani legò la lepre alla sella, la pose di traverso sulla groppa del cavallo con mosse agili e destre, quasi a voler rimproverare tutti con questo gesto, poi, con l'aria di non voler parlare a nessuno, montò sul suo sauro e si allontanò. Tutti, fuorché lui, si separarono con aria mesta, e stentarono alquanto a ritrovare l'affettata indifferenza di prima. Per un pezzo continuarono a guardare il rosso Rugaj che, con la schiena gibbosa inzaccherata di fango e l'aria soddisfatta e flemmatica del vincitore, camminava dietro il cavallo dello zio facendo tintinnare il suo guinzaglio.   
   «Anch'io sono un cane come tutti gli altri, quando non si tratta d'inseguire. Ma allora, dovete stare all'erta!» pareva a Nikolaj che dicesse l'aspetto di quel cane.   
   Quando, dopo parecchio tempo, lo zio si affiancò a Nikolaj col suo cavallo e si mise a parlare con lui, Nikolaj fu lusingato del fatto che, dopo quanto era successo, lo zio si degnasse ancora di rivolgergli la parola.   
   

   Capitolo VII   

   

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