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spediva in qualche posto. Si sarebbe detto che volesse provare se qualcuno di loro non si sarebbe arrabbiato, non le avrebbe tenuto il broncio; ma invece non c'era nessuno ai cui ordini la servitù adempisse tanto volentieri come a quelli di Nataša.   
   «Che cosa potrei fare? Dove potrei andare?» pensava Nataša, camminando lentamente per il corridoio.   
   «Nastas'ja Ivanovna, chi mai potrà nascere da una persona come me?» domandò al buffone, che le veniva incontro col suo giubbetto da donna.   
   «Pulci, cicale, grilli!» rispose il buffone.   
   «Dio mio, Dio mio, sempre le stesse cose! Ah, dove potrei andare a cacciarmi? Che cosa posso fare di me?»   
   E prese a correre svelta, battendo i piedi, su per le scale, per andare da Vogel, che abitava con la moglie al piano di sopra. Da Vogel c'erano le due governanti; sulla tavola c'erano piatti con uva secca, noci, mandorle. Le governanti discutevano per stabilire se la vita fosse meno costosa a Mosca oppure a Odessa. Nataša sedette, prese ad ascoltare i loro discorsi con aria seria e pensierosa, poi si alzò.   
   «L'isola di Madagascar,» disse. «Ma-da-ga-scar,» ripeté spiccando distintamente ogni sillaba e, senza rispondere a M.me Schoss che le chiedeva che cosa stesse mai dicendo, uscì dalla stanza.   
   Anche Petja era di sopra; insieme col suo tutore stava trafficando insieme a un fuoco d'artificio che aveva intenzione di lanciare quella notte.   
   «Petja, Petja!» gridò Nataša. «Portami giù.»   
   Petja le corse vicino e le porse la schiena. Lei gli saltò sopra, gli cinse il collo con le braccia e lui corse giù saltellando.   
   «No, non bisogna... l'isola di Madagascar,» disse e, scivolando giù

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