di proteggerla, era il giorno stesso in cui quel piano avrebbe dovuto esser messo in atto. Alle dieci di sera Nataša aveva promesso di uscire incontro a Kuragin passando dall'ingresso di servizio. Kuragin l'avrebbe fatta salire su una trojka già pronta a portarla a settanta verste da Mosca, nel villaggio di Kamenka, dove un prete spretato sarebbe stato in attesa, per sposarli. A Kamenka era pronto un tiro di cavalli di ricambio, che li avrebbe condotti sulla strada di Varsavia e, di là, con le carrozze di posta avrebbero passato la frontiera.
Anatol' aveva il passaporto, il lasciapassare per le carrozze postali e diecimila rubli in contanti che aveva ottenuto da sua sorella, più altri diecimila avuti in prestito con la mediazione di Kuragin.
Nella prima stanza, intenti a prendere il tè, sedevano i due testimoni: Chvostikov, un impiegatuccio in pensione di cui Dolochov si serviva per il gioco, e Makarin, un ussaro in congedo, un uomo bonario, debole di carattere, che nutriva per Kuragin un'ammirazione senza limiti.
Nel grande studio di Dolochov, rivestito fino al soffitto con tappeti persiani, pelli d'orso e armi varie, sedeva Dolochov in bešmet da viaggio e stivali, davanti a un bureau aperto sul quale posavano conti e fasci di banconote. Anatol', con l'uniforme sbottonata, passeggiava, avanti indietro, dalla stanza in cui sedevano i testimoni fino allo studio e ad una stanza interna, dove il suo domestico francese stava imballando le ultime cose. Dolochov contava i soldi e prendeva appunti.
«Dunque,» disse, «a Chvostikov bisogna dare duemila rubli.»
«E tu daglieli,» rispose Anatol'.
«Makarka (così chiamavano Makarin) per te si butterebbe nel fuoco, senza alcun tornaconto. Dunque, i conti io li ho belli e finiti,» disse Dolochov, mostrandogli una nota. «Va bene?»